Percezione e comunicazione del rischio naturale. Il ruolo dei mass media

Quando un intero oceano viaggia verso la terraferma a 700 km all’ora è chiaro a tutti che il genere umano vive appeso al filo delle grandi catastrofi naturali.

Il terremoto sottomarino del 26 dicembre 2004, seguito dal più colossale tsunami a memoria d’uomo, ha aggiunto un’altra pagina alla storia del rischio ambientale di matrice geologica, quello in grado cioè di generare eventi estremi che possono destabilizzare l’economia e la società a livello globale. Oltre a terremoti e relativi tsunami, appartengono alla classe del rischio ‘puramente’ naturale le eruzioni vulcaniche. Si tratta di eventi appartenenti esclusivamente alla sfera geologica: è chiaro infatti che non è possibile per l’uomo influire in alcun modo sul movimento di due blocchi di crosta terrestre che collidono l’uno contro l’altro o sui processi fisici e chimici che avvengono nelle fondamenta di un vulcano. L’uomo può influire invece sullo sviluppo di altri eventi connessi alla dinamica geologica e geomorfologica della Terra quali le frane, rendendo instabili i versanti montuosi attraverso dissennate opere di deforestazione. Esistono poi le alluvioni, gli uragani, i tifoni, eventi naturali nel loro manifestarsi ma che sono considerati da molti scienziati il prodotto di processi legati allo sconvolgimento dell’equilibrio climatico del Pianeta. E quest’ultimo, secondo la maggior parte dei meteorologi e dei climatologi, è stato negli ultimi 200 anni in gran parte causato dall’attività dell’uomo. Ci sono poi casi in cui l’evento naturale ha interagito catastroficamente con la tecnologia umana: il Vajont è un esempio classico di evento naturale in parte causato dall’intervento dell’uomo: si è trattato infatti di una colossale frana che ha interagito catastroficamente con l’opera dell’uomo (un bacino artificiale) provocando quella che a detta dell’ONU è il disastro ambientale più infausto della storia, proprio per la scellerata gestione della vicenda da parte della comunità tecnico-scientifica (senza dimenticare le responsabilità schiaccianti dei cosiddetti ‘poteri forti’). Più di recente anche l’uragano Katrina, forse innescato da forze connesse al cambiamento climatico, ha interagito con la tecnologia causando lo sversamento in oceano di decine di migliaia di barili di petrolio e prodotti petrolchimici. Anche il terremoto del luglio 2007 in Giappone, evento del tutto naturale, ha interagito catastroficamente con la tecnologia nucleare, quando le scosse hanno causato una fuga radioattiva dalla centrale nipponica di Kashiwazaki- Kariwa, vicina all’epicentro del sisma.
Dopo questa breve retrospettiva è chiaro quanto difficile sia divulgare, comunicare, educare, quando si ha a che fare con un tema tanto complesso. Alla difficoltà di identificare in modo univoco cause ed effetti degli eventi naturali, si aggiunge la difficoltà concettuale generata dal problema “tempo geologico” La nostra vita media infatti, 78 anni circa, è 60 milioni di volte più breve della storia della Terra. Noi geologi utilizziamo, al limite della deformazione professionale, i milioni e i miliardi di anni con disinvoltura. Siamo capaci di guardare con sempre migliore chiarezza indietro nel tempo, arrivando persino a documentare, ad esempio, che fra 120 e 80 milioni di anni fa la Terra entrò in un’epoca dominata da un ‘super-effetto serra’ naturale causato dall’eruzione di gigantesche quantità di lava sul fondo dell’Oceano Pacifico. Siamo capaci di guardare indietro nel tempo ma a volte siamo incapaci di toglierci le lenti deformanti che ci ancorano al passato del Pianeta e ci impediscono di valutare con chiarezza il contributo dell’uomo ai mutamenti dell’ecosistema globale. Il fatto che la vita dell’uomo sia tanto limitata rispetto alla scala temporale di eventi che si susseguono con intervalli di centinaia, a volte migliaia di anni, ci fa comprendere perché la percezione ‘alterata’ del rischio naturale possa produrre altissimi livelli di vulnerabilità. Il caso del Vesuvio è noto internazionalmente: si tratta di un vulcano le cui pendici sono densamente popolate, ad evidente testimonianza del fatto che molti abitanti di Napoli dubitano della sua effettiva pericolosità. Infatti, l’ultima eruzione catastrofica è avvenuta nel XVII secolo: è effettivamente difficile pretendere che l’uomo consideri pericoloso un sistema naturale che non ha prodotto eventi di rilievo per quasi 400 anni! E’ probabile che gli abitanti del territorio campano alla fine del II secolo d.C., all’indomani del grande evento che cancellò Pompei ed Ercolano, avessero ben altra percezione del rischio vulcanico rispetto ai moderni abitanti della metropoli partenopea. Per fare un altro esempio attinto alla sfera vulcanologica, la percezione del rischio associato al vulcano Stromboli è invece fortemente influenzata dal carattere ‘rituale’ delle eruzioni che si susseguono con continuità impressionante, alimentando il turismo nell’isola. Poco noto ai turisti è il fatto che si possano verificare improvvisi eventi parossistici, come quello del 5 aprile 2003, che spazzerebbero via in un attimo tutti i turisti (e i vulcanologi) che si trovassero sui fianchi del vulcano, anche a quote non immediatamente prossime alla cima. Per quanto riguarda la comunicazione dei rischi naturali, ci sono casi estremi nei quali esponenti dei mass media hanno intuito, meglio degli stessi scienziati, l’entità dei processi calamitosi in atto: è il caso di Tina Merlin, giornalista che, nei primi anni ’60, denunciò con forza la situazione di grave dissesto potenziale indotto dalla costruzione della diga del Vajont. Più di recente, nel 2000, molti quotidiani statunitensi hanno enfatizzato la previsione, da parte della scienza, della possibilità che un’alluvione colossale sommergesse New Orleans, evento puntualmente verificatosi cinque anni più tardi, dopo che le istituzioni avevano del tutto ignorato il richiamo congiunto mass media-scienza. A volte invece la scienza non trova ascolto dai media e deve fare da sola: è il caso del team di sismologi del California Institute of Techonology che avevano previsto con impressionante precisione l’eventualità che un terremoto sul fondo dell’Oceano Indiano causasse uno tsunami che andasse ad inghiottire le isole di fronte alla costa indonesiana. Non avendo avuto udienza né dalle istituzioni locali né dalla stampa, si sono rivolti direttamente alle popolazioni locali, distribuendo poster e depliants che mettevano in guardia gli isolani e illustravano i comportamenti da adottare nella malaugurata eventualità che l’oceano si ritirasse per poi inghiottire il litorale. Esempi di “mala-stampa” sono altrettanto frequenti anche in Italia.

Un esempio della tendenza all’allarmismo di molti dei mass media italiani rientra nella sfera della fisica nucleare: il recente esperimento compiuto all’acceleratore di particelle del CERN di Ginevra, da molti scienziati ritenuta la maggiore impresa scientifica della storia umana, è noto al grande pubblico soprattutto, se non esclusivamente, a causa dei timori della possibile apocalisse scatenata dalla produzione, come effetto collaterale dell’esperimento, di un “buco nero” che avrebbe inghiottito il Pianeta. La storia recente della comunicazione del rischio naturale nel nostro Paese è purtroppo densa di queste forzature mediatiche: citandone solo una per motivi di brevità, posso ricordare le grida di allarme scatenate dagli spettacolari crolli di guglie dolomitiche che, secondo alcuni giornalisti, sarebbero prodotti direttamente dallo scioglimento del permafrost alpino, che agendo come resistentissima colla ‘terrebbe insieme’ i versanti montuosi. Una minima dose di spirito di osservazione basterebbe a far comprendere che lo spettacolare paesaggio dolomitico, nel quale spiccano cime verticali contornate alla base da colossali fasce di detrito, è in realtà il frutto di innumerevoli crolli avvenuti con continuità a partire dalla fine dell’ultima glaciazione (circa 11.000 anni fa), quando l’uomo non poteva in alcun modo alterare l’assetto climatico globale. L’attività delle Guide Ambientali Escursionistiche dovrebbe procedere dunque non solo a partire dalla necessità, comunque imprescindibile, di diffondere cultura e consapevolezza ambientale, ma dovrebbe mirare a fornire l’opinione pubblica degli strumenti necessari ad attingere, con spirito critico, alla sterminata mole di informazioni (non sempre accurate) oggi disponibili.

 

Federico Aligi Pasquarè
Docente di Comunicazione Ambientale
Università degli studi dell’Insubria (CO)
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