Nel Parco Regionale delle “Dolomiti Friulane”. La diga del Vajont, una lezione che non abbiamo imparato
- 31 marzo 2009
- Comunicazione
- Categoria:Blog
La valle del Piave è una valle aperta e ampia, facilmente raggiungibile perché percorsa da una strada molto trafficata e dalla ferrovia che da Venezia porta a Calalzo di Cadore.
Ma per chi la percorre e arriva a Longarone si apre una insolita visuale: la tristemente famosa Diga del Vajont.
Il torrente Vajont è, infatti, un affluente di sinistra del Piave, nel quale sfocia dopo un breve percorso di 13 Km; la sua valle, caratterizzata da dirupi rocciosi a picco sul fiume, fa parte del Parco Regionale delle Dolomiti Friulane – che ringraziamo per l’assistenza alla stesura di questo articolo – in provincia di Pordenone.
La Diga, perfettamente intatta, è ancora lì, a ricordo di ciò che accadde il 9 ottobre 1963.
Chi la raggiunge e si guarda intorno rimane stupefatto: sono passati più di 45 anni e la natura non è ancora riuscita a cancellare l’accaduto, anzi sembra quasi che il tempo si sia fermato, tanto fresche sembrano ancora le evidenze della terribile frana.
Ma andiamo un po’ indietro nel tempo… Il progetto “Vajont” prese corpo nell’ambito di un programma della SADE [1] nel 1940, ma fu soprattutto nel ’53, quando il presidente Cini visitò la zona e restò affascinato dal progetto, che l’idea di costruire proprio lì la diga più alta del mondo si concretizzò in via ufficiale. Il sogno di tutta la vita del progettista, l’ing. Semenza, si avviò così a trasformarsi malauguratamente in realtà.
La SADE, ancor prima di ottenere le autorizzazioni dovute, iniziò i lavori di scavo nel ’56, giustificando l’atto con l’assunzione di manodopera locale; procedette agli espropri, anche senza avvertire i legittimi proprietari, che in certi casi videro il proprio terreno e talvolta la propria casa invasa dai tecnici e dai periti senza alcuna autorizzazione. Crebbero quindi le proteste, che furono anche ufficiali con le opposizioni presentate dai sindaci di Longarone e di Erto e Casso, preoccupati rispettivamente che il Piave potesse deviare il suo corso e che troppi terreni e case sarebbero stati sommersi dalle acque (non ancora preoccupati per l’incolumità delle persone).
La SADE infatti intendeva realizzare il progetto del “Grande Vajont”: una complessa rete di condotte che dovevano collegare i vari invasi del bacino del Piave e convogliare infine le acque nel serbatoio della Val Gallina sopra la centrale di Soverzene. Oltre alla centrale del Colomber, collocata entro la montagna a fianco alla diga, il lago doveva essere, infatti, un serbatoio di riserva per far funzionare altre centrali e fornire almeno un quindicesimo del fabbisogno energetico nazionale (e l’intero fabbisogno del nordest). Venne così costruita la diga che è ancora attualmente la seconda nel mondo per dimensioni (del tipo a doppia curvatura): 265 m di altezza, 22 m di spessore alla base e 3,4 m sulla cima: un’eccezionale opera di ingegneria! Ora sappiamo però che non era certo quello il sito adatto per costruire una tale diga e realizzare il lago: forse anche in quegli anni avevano capito che la roccia non si presentava compatta, sbriciolandosi in mille pezzi e mettendo in luce strati di diversa composizione geologica.
Anche il nome del monte avrebbe dovuto mettere in guardia: “toc” infatti vuol dire marcio, friabile, che va in mille pezzi. Tuttavia gli studi geologici, da cui dipendeva l’autorizzazione a procedere nell’opera, furono approssimativi e accademici: il prof. Dal Piaz, a cui Semenza aveva affidato gli studi, nonostante la buona reputazione di cui godeva, non era in grado di portare a termine l’impegno per la sua età avanzata e, invece, di effettuare le dovute rilevazioni, preparò esposizioni alquanto generiche in cui si affidava alla sua personale esperienza passata. Le successive indagini geologiche, affidate a Müller e a due giovani geologi italiani, Giudici e Edoardo Semenza (figlio dell’ingegnere), rivelano, invece, la vera natura del terreno: ma ormai era tardi per tornare indietro… Nel 1961 venne definitivamente confermata la grandezza della massa in movimento sulla montagna sovrastante il lago: 200 milioni di metri cubi!
Ancora non era chiaro se essa avrebbe prodotto franamenti successivi di modeste dimensioni o un unico scivolamento in blocco; Müller prevedeva che se il distacco fosse stato lento e frazionato tante piccole frane dovevano, cadendo, avere l’effetto positivo di stabilizzare il grosso della frana. Semenza ordinò uno studio che riproducesse con un modello in scala 1:200 la situazione per valutare le possibili conseguenze, ma anche in questo caso l’esperimento venne alterato riproducendo una frana di dimensioni molto ridotte e la relazione non venne inoltrata agli organi di controllo. In ogni caso appariva chiaro che al livello di 715 metri la frana avrebbe provocato un’onda catastrofica; la quota di sicurezza venne valutata di 700 metri. La corsa al guadagno aveva fatto dimenticare alla SADE le precauzioni necessarie? Gli interessi economici erano più importanti della salvaguardia della vita umana? Poco distante, nel bacino idroelettrico di Pontesei, costruito sul torrente Maè nella Val Zoldana, nel 1959 si era consumato un fatto che poteva risultare ben più grave dell’accaduto e che doveva essere di monito per il Vajont. Diverse fessure erano comparse sul versante sinistro della valle e per precauzione era stata deviata la strada sul versante opposto: una frana staccatasi dal Monte Castellin con un fronte di 500 metri e un volume di 3 milioni di metri cubi precipitò nel lago artificiale provocando un’onda di 20 metri che scavalcò la diga, provocò un morto, distrusse un ponte e spaventò gli occupanti di una corriera. Anche qui, nonostante i movimenti franosi fossero conosciuti da tempo, non si volle o non si poté evitare l’evento; all’incidente inoltre non venne dato risalto per non creare allarmismi, ma l’acqua aveva dimostrato la sua potenza distruttiva sotto l’effetto di un frana paragonabile a un centesimo di quella del Vajont.
Il 4 novembre 1960 una massa di 800.000 metri cubi di materiale precipitò nel bacino, dando luogo ad un’onda che all’impatto con la diga si sollevò fino a un’altezza di 10 metri; non si registrarono danni, ma il fatto era stato un monito evidente, una vera avvisaglia di quella che in seguito sarebbe stata la tragedia.
Da tempo ormai era comparsa una lunga fessura perimetrale sul Monte Toc: questa aveva l’aspetto di una gigantesca M e si sviluppava per 2500 metri sulle pendici settentrionali della montagna.
Poiché la frattura aumentava a vista d’occhio venne disposto il provvedimento di svaso, si intensificarono gli studi e le ricerche e venne scavata una galleria di sorpasso con lo scopo di prevenire l’eventualità che l’acqua del lago, nel caso la frana lo dividesse in due, non potesse più venir convogliata nella galleria di derivazione. La tragedia era ormai imminente ed evidente: un rumore continuo di terra e sassi che precipitavano nel lago era accompagnato da frequenti scosse di terremoto. Eppure la giornalista Tina Merlin, che descriveva e denunciava la situazione, era stata denunciata per “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”.
Pochi giorni prima della tragedia iniziò l’ultimo svaso, ma questo estremo intervento, voluto dall’ingegner Biadene, non riuscì ad evitare il peggio. Dal paese di Casso si potevano osservare ad occhio nudo i mutamenti della frana, che interessavano anche la strada e gli alberi che si inclinavano e cadevano mentre si formavano fessure di molti metri e il movimento franoso si spostava di 22 cm al giorno. Era stata evacuata la popolazione dal Monte Toc, erano stati installati l’illuminazione notturna e strumenti di segnalazione dell’altezza di eventuali onde; gli operai avvisavano la gente del pericolo imminente, sulle pareti erano stati affissi manifesti che parlavanodi possibili ondate gigantesche…. ma il pericolo veniva ancora negato!
Finché…l’inevitabile. Alle 22.39 del 9 ottobre ’63 una frana gigantesca si staccò dalle pendici settentrionali del Monte Toc precipitando nel lago: una massa di oltre 270 milioni di metri cubi che arrivò a valle in un attimo, con un enorme boato: tutta la costa del Toc, costituita da boschi, campi e abitazioni era precipitata nel bacino, con una forte scossa di terremoto.
Il lago sembrò sparire e al suo posto comparve una massa d’acqua di almeno 50 milioni di metri cubi, alta più di 174 metri sopra la diga (per un’altezza totale di 438 m), contenente alberi, case e massi del peso di diversi milioni di tonnellate.
Nella più completa oscurità la forza d’urto della massa franata creò due ondate: la prima, spinta verso il centro della valle si abbassò risparmiando di poco l’abitato centrale di Erto ma spazzando via le sue frazioni più basse (Frasegn, Le Spesse, Cristo, Pineta, Ceva, Prada, Marzana, San Martino); la seconda superò la diga e si riversò verso valle investendo prima le case più basse del paese di Casso, poi imboccando la stretta valle del Vajont verso Longarone.
L’onda era preceduta da un forte vento e, muovendosi a una velocità impressionante, si abbatté su Longarone, dopo aver raschiato con forza il greto del Piave.
E’ difficile immaginare un tale scenario apocalittico ed è difficile trovare le parole adatte per descriverlo: l’energia che si liberò è stata valutata di potenza pari a una deflagrazione atomica. Il collegamento viario eseguito sul coronamento della diga venne divelto, così come la centrale di controllo e il cantiere degli operai.
Tra un crescendo di rumori e sensazioni che diventavano certezze terribili, le persone pur rendendosi conto di ciò che stava accadendo non avevano alcuna possibilità di scappare; case, chiese, monumenti, strade vennero sradicate e trasportate via dall’acqua; l’onda si infranse contro la montagna e poi iniziò un lento riflusso verso valle scavando anche in senso opposto. Altre frazioni vennero distrutte nei comuni di Longarone e di Castellavazzo.
Il Piave diventò un’enorme massa d’acqua generando un’onda di piena che perdurò per una decina di ore e la spinta dell’acqua trascinò anche verso nord, sino a Termine di Cadore, grosse piante e qualche salma. L’incubo che per anni aveva ossessionato la gente della valle era purtroppo divenuto realtà.
La tragedia provocò molte più vittime che feriti: il loro numero fu di 1908, secondo fonti attendibili. L’84% delle vittime si registrò nella valle del Piave, tra i comuni di Longarone (1451) e Castellavazzo (110), mentre nella valle del Vajont non furono risparmiate le frazioni di Erto (114) e Casso (29); anche il cantiere venne travolto con le 54 persone addette ai lavori. Ciò che restò di Longarone (22 case nella parte più settentrionale) risultava completamente isolato, perché tutte le comunicazioni erano state troncate; la strada e la ferrovia erano state divelte e asportate per diversi chilometri; anche gli stabilimenti industriali della valle non esistevano più.
I corpi delle vittime furono in parte sepolti in fosse comuni, scavate con pressante urgenza a nord dell’abitato di Fortogna: delle 1476 croci allineate, 767 rimasero senza nome; ad esse si deve aggiungere il ricordo di 300 persone mai più ritrovate.
La perdita di quasi duemila vittime stabilisce un doloroso primato nella storia italiana e mondiale: si è trattato di una tragedia tra le più grandi che l’umanità potrà mai ricordare, provocata non solo dall’imprevedibilità della natura, ma soprattutto dall’egoismo umano.
La diga aveva retto alle tremende sollecitazioni grazie alla saldezza della roccia su cui era stata impostata e alla perizia progettuale e costruttiva nella sua realizzazione.
Per 3 anni la valle rimase inagibile: mentre prima, quando sarebbe stato necessario, la popolazione non fu evacuata, dopo venne forzatamente tenuta lontano dalle proprie case, addirittura con posti di blocco e la costruzione di un muro a S. Osvaldo.
Negli anni seguenti molti studiosi hanno cercato di trovare una spiegazione al fenomeno; lo studio di Hendron e Patton, pubblicato nell’85, ha confermato l’esistenza di una paleofrana, di livelli di argilla in più luoghi lungo la superficie di frattura e l’esistenza di due acquiferi alimentati dal lago e separati dal livello argilloso.
Le argille imbevute d’acqua (anche per le continue piogge) avevano probabilmente agito da cuscinetto per la massa sovrastante. Inoltre esisteva una correlazione precisa tra i livelli del lago e i movimenti franosi: i continui invasi e svasi, che in un primo momento si ritenevano importanti per regolare il comportamento della frana e provocare il previsto creeping [2], hanno contribuito ad accelerare la frana.
La zona risultava completamente isolata, perché tutte le comunicazioni erano state troncate; la strada e la ferrovia erano state divelte e asportate per diversi chilometri; anche gli stabilimenti industriali della valle non esistevano più.
Le cronache del tempo si limitarono ad affrontare l’aspetto umano della tragedia, sottolineando l’imprevedibilità dell’accaduto e trascurando le responsabilità; nei successivi processi Biadene venne condannato a 5 anni (con 3 condonati) e la Montedison e l’Enel a risarcire i danni ai comuni di Longarone e di Erto e Casso (il processo terminò nel 2000!); man mano che passava il tempo, nei tre gradi di giudizio, le responsabilità umane apparivano sempre più gravi, ma sempre più ridotte risultavano le pene.
Oggi una vasta letteratura ha scandagliato in profondità l’accaduto: non mancano esempi di composizioni poetiche, documentazioni fotografiche e rappresentazioni teatrali, tra cui quella di Paolini trasmessa in televisione, che ha avuto il merito di riportare alla ribalta un evento che era stato troppo presto archiviato.
Il materiale prodotto è stato anche raccolto in un libro, “Il racconto del Vajont”, nato soprattutto dalla voce della gente che ha vissuto in prima persona la tragedia e molto successo ha avuto anche il film di Renzo Martinelli.
Tantissimi visitatori vengono ogni anno a vedere la diga, di cui oggi è possibile ripercorrere l’intero coronamento.
Accompagnati dalle guide naturalistiche del Parco delle Dolomiti Friulane, è possibile rendersi conto in prima persona dell’accaduto, rimanere senza fiato di fronte alla bellissima forra del Vajont che permette di apprezzare l’incredibile altezza della diga (264 m) e visitare i paesi di Erto e Casso, da cui è possibile osservare la gigantesca M rimasta inalterata sul Monte Toc.
Erto e Casso costituiscono un unico comune, ma le due comunità sono molto diverse: Erto, con le sue lunghe schiere di case in pietra rosata nella parte antica [3], e Casso, con le sue originali case-torri arroccate in pochissimo spazio, meritano da soli una visita.
Solo venire e vedere di persona permette in parte di capire ciò che è accaduto a queste comunità e di scoprirne il perché; tanti si chiedono se oggi potrebbe accadere di nuovo, col timore che le azioni dell’uomo siano ancora e sempre guidate dalla fame di potere e dalla sete di denaro…
Tante più persone vedranno e capiranno, tanto meno probabile è che un evento analogo si ripeta ancora… speriamo…
Laura Fagioli
Coordinatore AIGAE Friuli Venezia Giulia
friuli@aigae.org
——————————————————————————————————————————————————
[1] Società Adriatica Di Elettricità. Compagnia idroelettrica privata di proprietà di Giuseppe Volpi, detto Conte di Misurata. Dal 1962, con la nazionalizzazione, la diga passa dalla SADE all’ENEL. La SADE confluirà successivamente nella Montedison, società che, alla conclusione del processo sul Vajont, sarà condannata insieme all’ENEL a risarcire i danni provocati dalla catastrofe. (N.d.R.) [2] Creeping [der. di (to) creep «strisciare; muoversi lentamente»], usato in ital. al masch. – In geologia, movimenti impercettibili di assestamento che avvengono, per varie cause, alla superficie di terreni detritici a debole pendenza, cui consegue, in genere, una diminuzione della pendenza stessa. (N.d.A.) [3] La tragedia che colpì Erto e la solitudine e l’abbandono degli anni successivi sono magistralmente narrati nel romanzo I fantasmi di pietra di Mauro Corona edito da Mondadori. (N.d.R.)