Gento non era solo un camoscio, era una parte di Alpi…

Quell’anno aspettai che i larici mettessero a terra i loro aghi rossi; solo allora iniziai le mie perlustrazioni, ricche peraltro di riflessioni e dubbi.

I percorsi novembrini in montagna avevano due aspetti fondamentali: il silenzio e la morbidezza creati dal tappeto soffice e rosso di aghifoglie, che rendeva l’andatura ovattata e armonica, e il ghiaccio presente in alcuni tratti, celato dallo stesso manto morbido, che però portava a scivolate traumatiche. In quei giorni mi attardai in percorsi a mezza costa, passando di rado oltre il limite arboreo. Questo mi permetteva di prendere più spunti sui cambiamenti di alcuni ambienti, tralasciando un po’ le zone in quota, perlustrate maggiormente col binocolo. Qualcosa però colpì quasi da subito la mia attenzione. Nel fango vicino alcune pozze, vidi impronte confuse, mescolate, quasi caotiche: erano camosci.Il giorno seguente mi svegliai con la neve. La notte aveva portato un leggero mantello spesso due dita e ora il cielo presentava le sue nubi uniformi verniciate di acciaio. Tornai a camminare nel vallone di sempre dove trovai la neve pesta di impronte, sovente sovrapposte o con scivolate e grattate nel terreno, la neve sbrinciata tra massi e olina. I camosci avevano dato inizio alle danze, forse le più spettacolari delle Alpi… gli Amori! Quel giorno non li vidi, neppure in cima alle conoidi o sui salti di roccia: erano come svaniti. Non trovai le urinate marroni dei maschi sulla neve, come gli anni addietro e sembrava mancasse movimento di pelo e di zoccolo intorno alla montagna. Due giorni dopo splendeva un sole caldo tra creste bianchissime, larici rossi e un cielo troppo blu. Fu verso le dieci, prima che il sole desse tregua all’ombra, che mi accorsi di loro; due maschi, a venti metri uno dall’altro, che risalivano le pietre del crinale, le bocche aperte a evaporare lo strano verso, le criniere nere, folte, dritte fino al sacro. Un pensiero mi solleticava il cranio, richiamando dagli scaffali del passato un pezzo di ricordo vivo; un grosso maschio aveva lasciato una firma indelebile sui sentieri dei miei sguardi. Era unico davvero, di vigore e di trofeo; le corna nere e spesse lasciavano i ciuffi della testa strette e parallele per divaricare e arcuare fino a chiusura dell’uncino forte, mentre agli sgoccioli dell’autunno il folto pelo scuro lo rendeva parente dell’orso, che di nutrimento estivo aveva abbondato per il conto da saldare con l’inverno. Ma i suoi fianchi pieni rilucevano l’argento di un riflesso di luce che non era, la prima volta che lo vidi sembrava bestia sfregata nel fango di acqua di fusione che dai ghiacciai porta con sé quel sedimento grigio di morena. E quello scolorire lo rendeva unico, con la taglia e il corno.
Quando il ricordo pulsa ti presenta il passato su una slitta in discesa e devi correre a cercare nel presente o scansarti. Quella sera andai a consultare quelle righe storte e spezzate dove l’inchiostro inchiodava i miei pensieri. Poi la neve portò i suoi petali bianchi a ricoprire il fondovalle e le creste per tutto un giorno. Ripresi la strada per il vallone da lì a due giorni con le racchette da neve. Il freddo non portava ancora la neve a scricchiolare e camminare era piacevole, malgrado le pietre non fossero tutte nascoste dalla bianca. A milleottocento metri un’aggregazione di larici mi congedò in terreno aperto, tanto da divenire percorso di calpestìo di due poderosi maschi irsuti che mi scavalcarono in corsa… Camosci a novembre; animali primordiali di zoccolo, pelo e fiato denso. Spruzzi di neve mista a sangue dove l’uncino lacerava in corsa garretto o ventre di sfidante. La resa significava rifiatare mentre lasci il territorio o risali il crinale. Allora i gomiti alti a puntare il binocolo su di loro, perché dieci ingrandimenti fanno scivolare più rapidamente il ricordo alla realtà, dove più a monte, sotto l’ultimo salto, l’argento rifletteva il fianco spesso del ricercato animale. Bene! Era lassù, a rifiatare, mentre gli sfidanti lasciavano al ritmo del fiato corto il tempo per ripensarci o combattere ancora. Era il momento buono per avanzare verso il mio camoscio argenteo che il tempo e l’abitudine avevano portato a soprannominare con un vezzeggiativo fatto mio : Gento! E Gento non era solo ‘un’ camoscio, Gento era una parte di Alpi, era prateria alpina e dirupo, conoide e morena… Gento era ‘il’ camoscio. E quando l’alito spesso di Gento prendeva forma di nuvola densa nell’aria fredda e tersa di novembre voleva dire guai agli sfidanti. L’esempio raramente riflette la realtà, così per comprendere il camoscio lo si deve vedere, sentire, annusare almeno una volta. Vivere le sue vibrazioni a novembre ti aiuta a comprendere come un’anima irrequieta prende corpo su percorsi trasparenti a una spanna da terra, neve, rocce, sassi, ghiaccio, licheni che la realtà non potrebbe. Forza e resistenza, velocità e agilità sono le naturalità che prendono forma dal concepimento alla morte di ogni camoscio libero e vivo. Nei pensieri del ‘Montagnard’ è sempre vivo il desiderio di avere somiglianza almeno a una parte di questa bestia: cuore…menischi…polmoni…legamenti… muscoli delle zampe. Gento in quei giorni portava la lotta nel sangue e l’ardore agli occhi di quelle femmine che tanto ti fanno penare, per poi abbandonare. La scelta ultima sta a loro, da sempre, su questi terreni duri e aridi, freddi e scivolosi, ricchi di profumi e pizzicori alle narici per muschio, resina, pelo e ghiandole.
Attesi un rifiato, come quando dopo una raffica di tormenta porta pace la sua assenza, vidi Gento a bocca aperta, la lingua estroflessa. Così mi avvicinai… nello zaino tutto il necessario. Ora lo vedevo bene, più alto rispetto a me, come a comandare le pietre se rotolare o stare, mentre fiutava l’aria fredda a narice alta e aperta; questo non rappresentava un problema, quando arrivai a circa settanta metri mi accovacciai a terra, tolsi ciaspole e zaino, stesi la giacca sulla neve e appoggiai i gomiti al sacco per binocolare fermo. Sembrava il momento giusto… sebbene fossi ancora abbracciato nell’ombra, il sole stava coccolando il crinale di luce calda. Estrassi l’arnese e lo appoggiai con cautela sullo zaino, ora ero quasi sdraiato, tolsi le protezioni, controllai i meccanismi dell’otturatore e attesi. Il sole arrivò a verniciare di argento i fianchi di Gento; quello era il momento! Imbracciai saldo… Puntai, mirai e premetti… una volta, poi di nuovo e poi ancora… Preso! Un colpo fantastico! Preciso! Ci furono delle fughe, ma oramai il lavoro era fatto; ciò che attendevo da anni. Rimisi tutto nel sacco e mi incamminai verso Gento, certo, lui non c’era più. Arrivato sul posto mi guardai il vallone da quel ghiaione e poi portai l’arnese a me; riguardai sul display della mia reflex le fotografie appena scattate… sembravano belle, avrei poi verificato con calma a casa, con la fiamma amica della stufa e una tazza di the. Guardai ancora verso il fondovalle dove scorreva il fiume, la neve vestita dell’ombra sembrava più fredda e un fianco argenteo correva a uncino basso a fendere garretti. La slitta dei ricordi si era fermata sul piano del presente.

Dario De Siena

 

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