Camminare, un gesto trasgressivo
- 31 marzo 2011
- Comunicazione
- Categoria:Blog
Chi viaggia a piedi di città in città, ad esempio lungo la Via Francigena e il Cammino di Santiago, si riappropria di spazi dal quale l’uomo moderno si è ritirato da alcune decine di anni.
Oggi, in Italia, una persona che cammina sul bordo di una strada provinciale con uno zaino sulle spalle viene spesso guardata come se passeggiasse in costume da bagno nel centro di Milano. Il senso comune ammette la presenza di donne e uomini seminudi lungo una spiaggia o in una piscina, così come ammette la presenza di camminatori vestiti da trekking lungo un sentiero di montagna o, al limite, in un parco. Chi esce dai confini stabiliti dalla cultura dominante compie un gesto trasgressivo, con il fascino e i rischi che ciò comporta. Anche se il pedone secondo la legge è il primo utente della strada (nel senso che è il primo ad essere citato nell’articolo 1 del Codice della Strada), e anche se il transito pedonale è ammesso lungo la stragrande maggioranza delle strade italiane, il cartello che indica la fine di un centro urbano rappresenta per chi cammina una moderna versione delle colonne d’Ercole. Chi lo supera si espone a un rischio, poiché oltre quel segnale nessuno prevede la sua presenza. Innanzitutto chi ha progettato la strada ha lavorato per far viaggiare veloci e sicuri i veicoli a motore, non certo per proteggere gli incauti pedoni. In secondo luogo gli automobilisti non hanno la percezione della loro velocità e della pericolosità della tonnellata di metallo che guidano. Infine il pedone stesso si crede più visibile di quanto in realtà sia, e tende a sopravvalutare la buona educazione e lecapacità di guida degli automobilisti. Questi ultimi in genere lo vedono come un ostacolo che rallenta la loro marcia, un intruso nel loro territorio. Un territorio dal quale ‘l’uomo bianco’ si è ritirato da alcuni decenni, lasciandolo in balia della modernità. Un territorio in cui in tempi recenti si avventurano quasi esclusivamente i migranti africani ed asiatici. A casa loro sono ancora abituati a viaggiare a piedi, e le loro strade, anche se importanti e trafficate, prevedono quasi sempre un’ampia banchina con un sentiero su cui possono camminare in sicurezza uomini ed animali. Quindi se decidono di camminare non è solo perché non hanno la possibilità economica di usare altri mezzi, ma perché la loro cultura non considera disdicevole né bizzarro percorrere qualche chilometro a piedi per raggiungere un villaggio vicino.
In questo senso hanno molto da insegnarci: ritirandoci dalle ‘terre di mezzo’, abbiamo rinunciato a presidiare un territorio prezioso, che è stato utilizzato in modo sregolato e disordinato da chi ha speculato sulla nostra assenza. Chiusi in scatole lanciate a cento chilometri all’ora, vediamo le nostre periferie come un male necessario, da superare in tempi rapidi. Non ci soffermiamo sulla bruttura delle zone artigianali, invase dai capannoni prefabbricati e dai centri commerciali che costeggiano per chilometri qualunque via di comunicazione, consumando ettari di territorio e deturpando definitivamente il paesaggio. Chiusi nell’utero ovattato della nostra auto, veniamo isolati dal mondo esterno da cristalli che filtrano tutto: luce, freddo, caldo, rumori, profumi, puzze. Vediamo una nuova circonvallazione e ne apprezziamo la scorrevolezza, senza renderci conto che magari per costruirla è stata deturpata una zona di pregio paesaggistico, e che comunque il territorio è stato tagliato da una barriera spesso insormontabile per chi cammina, poiché difficilmente viene previsto un passaggio pedonale. Chiusi nelle nostre auto non notiamo le discariche abusive che nascono come i funghi sui bordi delle strade asfaltate o in mezzo alle strade campestri, pavimentate per centinaia di metri con le macerie depositate da muratori irresponsabili. Chiusi nelle nostre auto, ci ritiriamo da un territorio che non percepiamo più come bene comune. Il dogma della proprietà privata ci ha fatto dimenticare l’importanza di beni fondamentali per la collettività; l’atrofia del nostro sguardo ci impedisce di comprendere che uno scempio estetico compiuto da un privato ignorante o in malafede sul proprio terreno può avere conseguenze devastanti sul paesaggio, che oltre ad essere un bene collettivo è una delle principali risorse economiche del nostro Paese.
La rivoluzione in cammino
In questo senso la decisione di avventurarsi a piedi in queste ‘zone grigie’ è in sé un gesto rivoluzionario, una manifestazione di senso civico. Portarci altre persone è un atto di politica attiva. Chi cammina nella natura ha in generale l’impressione di riappropriarsi del proprio tempo, ma chi viaggia a piedi di città in città si riappropria del proprio spazio, e si rende conto meglio di altri di quale prezzo stiamo pagando alla modernità e agli agi. In questo senso il camminatore è un testimone scomodo del saccheggio ambientale, e forse non a caso chi progetta le strade non fa nulla per semplificargli la vita. Inoltre, il camminatore con zaino in spalla è una presenza destabilizzante per chiunque lo veda. La sua presenza è talmente rara da non poter passare inosservata, e inevitabilmente stimola delle domande. La più innocente e la più gradita è “Da dove vieni? Dove stai andando?”, inevitabilmente condita con esclamazioni di sorpresa nel momento in cui la meta e la destinazione distano più di dieci chilometri. Più insidiose sono le domande che non vengono esplicitate: da «Chi è questo straccione? Cosa vuole da me?» a «Perché non faccio anch’io come lui? Come mi piacerebbe accompagnarlo…». In ogni caso un viaggiatore a piedi perturba in qualche modo l’ordine delle cose, si inserisce nel paesaggio modificandolo, la sua semplice presenza spesso scuote le coscienze e l’inconscio di chi lo osserva anche in lontananza. Il tutto mentre compie il gesto più semplice e naturale, quello che distingue gli uomini dagli animali: camminare su due zampe.
Camminare rende felici
Un altro aspetto trasgressivo e destabilizzante del viaggio a piedi è costituito dalla gratuità del gesto. Camminare non costa nulla, non rende nulla. Eppure in genere aumenta la felicità delle persone. Camminando si dimostra la stupidità della regola che vorrebbe legare la crescita del prodotto interno lordo al benessere, poiché chi cammina in genere aumenta il proprio benessere con un impatto nullo sul Pil. In quest’ambito, la trasgressione estrema è quella di viaggiare a piedi senza soldi, confidando nella generosità delle persone e/o in organizzazioni in grado di accogliere gratuitamente i pellegrini. Sebastien des Fooz descrive nel libro “A piedi a Gerusalemme, 184 giorni, 184 volti”1, il suo pellegrinaggio dal Belgio alla Terra Santa, in cui viene ospitato nelle case di decine di famiglie, spesso trattato come ospite di riguardo e nutrito con piatti prelibati. Durante il suo viaggio la generosità è in genere inversamente proporzionale alla ricchezza, e nei Paesi più poveri, in particolare di fede musulmana, l’ospite cristiano viene esibito come un trofeo alla comunità locale. E’ questo un positivo ritorno al Medio Evo, alla tradizionale accoglienza riservata ai pellegrini, che anticamente venivano considerati come un ordine monastico a sé, con l’ospitalità gratuita gestita da organizzazioni come i templari, i cavalieri del Tau, i cavalieri del Santo Sepolcro. I pellegrini venivano accolti volentieri anche nelle case private, dove in cambio di un letto e di una zuppa calda, portavano notizie e saperi. In un’epoca in cui la quasi totalità della popolazione era analfabeta, la trasmissione orale era l’unico modo per tenersi informati, e un viaggiatore proveniente da Paesi lontani era un potente strumento di trasmissione delle informazioni e di divulgazione culturale. Oggi le informazioni non ci mancano, anzi ne siamo sommersi, e abbiamo la falsa impressione di non avere più bisogno della trasmissione orale. Invece un viaggiatore consapevole e attento, soprattutto se viene da un Paese lontano, può essere una risorsa preziosa. In un’epoca in cui s’innalzano barriere può aiutarci a comprendere e ad apprezzare la diversità, anziché subirla. Può consentirci di raccogliere informazioni dirette anziché mediate. Può aiutarci a ricordare il significato profondo dell’accoglienza.
La riscoperta degli antichi cammini
La riconquista del territorio e la riscoperta dell’accoglienza sono chiavi di lettura fondamentali per comprendere lo straordinario successo del Cammino di Santiago, lungo il quale nel 2010 hanno camminato più di un milione di persone2. Un fenomeno spesso liquidato come una moda, una delle tante modalità che l’uomo moderno trova per seguire il gregge, in realtà ha caratteristiche ben più complesse, che meritano di essere analizzate con attenzione. Il Cammino di Santiago non è un percorso, ma un rito collettivo compiuto da quella che Michele Serra ha definito una “comunità lineare”. Ogni mattina, in centinaia di ostelli distribuiti lungo gli itinerari che conducono in Galizia, migliaia di persone si svegliano alle prime luci dell’alba, si infilano gli scarponi e si mettono in cammino. Passo dopo passo, giorno dopo giorno, liberano la mente, che – come dice l’amica Carla De Bernardi3 – vola leggera come un palloncino, sperimentando una libertà e una freschezza spesso sconosciuta nella vita di tutti i giorni. Il percorso è semplice, è quasi impossibile perdersi grazie alle frecce gialle che si trovano ad ogni incrocio, non bisogna dedicare attenzione ed energia all’orientamento. Il pellegrino segue la corrente, si lascia trasportare come una barchetta che galleggia lungo un fiume. Una volta tanto si sente a proprio agio, attraversa un territorio accogliente in mezzo a un flusso di propri simili, tra i quali può sempre trovare qualcuno disponibile ad aiutarlo quando serve, e soprattutto ad ascoltarlo. E ogni sera ha la certezza di trovare un tetto, un letto, un piatto caldo a un prezzo onesto. Le gambe scandiscono il ritmo del cammino, compiono ossessivamente lo stesso gesto, il rumore dei passi e il ritmo del respiro si ripetono immutati per ore, in un mantra che stimola la meditazione. Lo sguardo spazia lontano, verso gli orizzonti delle mesetas e degli altipiani, ma il pellegrino guarda soprattutto dentro di sé, camminando esplora la propria intimità, con uno sguardo impietoso, senza barriere. Si rende conto che sulle sue spalle, nei dieci chili del suo zaino, c’è tutto quello che gli serve per vivere un’esperienza intensa, spesso meravigliosa. E’ quindi costretto a farsi delle domande sul proprio stile di vita, sul modo in cui trascorre l’esistenza, su ciò che è effettivamente necessario per renderlo felice. Questo è il Cammino di Santiago, e tante altre cose. Questo potrebbero diventare alcuni percorsi italiani, come ad esempio la Via Francigena e il Cammino di Assisi. Itinerari che finora sono stati trattati soprattutto come potenziali attrattori turistici, senza comprenderne il potenziale culturale e sociale. Se come ha scritto Goethe “l’Europa è nata in pellegrinaggio verso Compostela”, l’Italia potrebbe rinascere in pellegrinaggio verso Roma, e il fiume di persone in cammino lungo la Via Francigena potrebbe avere conseguenze imprevedibili sullo sviluppo culturale e sociale dell’intero Paese.
Alberto Conte
Direttore itinerAria scs
alberto@itineraria.eu
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[1] Libri Scheiwiller Edizioni (N.d.R.)
[2] Nel 2010, anno santo jacobeo, circa 300.000 pellegrini che hanno percorso almeno 100 km a piedi o 200 in bicicletta si sono registrati al loro arrivo a Santiago. Tuttavia a causa dell’affollamento non tutti coloro che sono arrivati a Santiago si sono presentati all’ufficio del pellegrino. Inoltre un sondaggio condotto da chi scrive insieme al centro studi del Touring Club Italiano ha dimostrato che meno di un terzo delle persone che percorrono tratti anche significativi del cammino decidono di arrivare a Santiago: molti ne percorrono ogni anno un tratto diverso.
[3] Carla De Bernardi, fotografa e scrittrice, autrice del libro “Contare i passi”, Mursia, 2010