Antipedofilia, Pos e Iva nei Parchi: gli esperti rispondono
- 07 giugno 2014
- Comunicazione
- Categoria:Blog
Lo sapevate che in molti Paesi del mondo industrializzato le piccole aziende non hanno bisogno del commercialista perché una persona con un livello medio di alfabetizzazione è in grado di tenere in modo autonomo i propri rapporti con il fisco? O che, in tutto il mondo, il notaio entra in scena solo per transazioni di particolare rilevanza economica o sociale? O che gli adempimenti tributari costano all’impresa italiana media 285 ore all’anno mentre nei paesi nordeuropei o anglosassoni non si arriva a 100?
Come tutti sappiamo, non viviamo in un ‘paese normale’. Per cui, adempimenti che altrove sono espletabili senza grosse difficoltà dalla maggioranza dei cittadini (in primis la propria denucia dei redditi) richiedono da noi il ricorso a dei professionisti specializzati che, a loro volta, hanno spesso difficoltà a capire che pesci pigliare data l’incongruenza di molti provvedimenti.
Nell’ambito della rubrica “In nome della legge”, da oggi, anche nella speranza che sempre meno si abbia a dovervi discettare di bizantinismi legislativi riguardanti la nostra professione, rispondiamo alle tante domande dei Soci circa i vari adempimenti che affliggono la nostra esistenza e ci mandano periodicamente nel panico. Rispondono ai primi quesiti l’Avv. Luca Berchicci, nella sua veste di consulente legale di Aigae, e Marco Menichetti, presidente del Collegio dei Revisori dei conti di Aigae,
commercialista.
Il certificato antipedofilia
Il 22 Marzo è stato pubblicato sulla gazzetta Ufficiale il D. Lgs. 39/2014, recante l’attuazione della Direttiva 2011/93/ UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minorenni e la
pornografia minorile che sostituisce la Decisione Quadro 2004/68/GAI. La direttiva recepisce i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il cui articolo 24, paragrafo 2, prevede che, in tutti gli atti relativi ai minori, siano essicompiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente. A tale proposito è stata prevista l’armonizzazione delle pene tra gli Stati membri.
In pratica, il nuovo adempimento impone ai datori di lavoro che intendono assumere personale per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che “comportino contatti diretti e regolari con minori” di chiedere il certificato penale al fine di verificare l’assenza di condanne per reati legati a pedopornografia e sfruttamento sessuale di minori. In caso di inadempimento scatta una sanzione che va da 10 mila euro a 15 mila euro; la norma è entrata in vigore il 6 aprile 2014 e abbiamo provveduto ad allertare i Soci attraverso newsletter.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con la circolare n. 9 dell’11 aprile 2014, ha fornito utili precisazioni in merito al nuovo obbligo introdotto dal Decreto. In particolare, è stato chiarito che l’obbligo di acquisire il cosiddetto “certificato antipedofilia” serve a “verificare l’esistenza di condanne per taluno dei reati di cui agli articoli 600-bis (prostituzione minorile), 600-ter (pornografia minorile), 600-quater (detenzione di materiale pornografico), 600-quinquies (pornografia virtuale) e 609-undecies (adescamento di minorenni) del codice penale, ovvero l’irrogazione di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori”. Inoltre, con la dizione “impiego di lavoro” il MLPS fa presente che essa non può essere limitata alle sole tipologie di lavoro subordinato ma ricomprende anche quelle forme di attività di natura autonoma che comportino, ovviamente, un contatto continuativo con i minori (quali ad esempio, collaborazione anche a progetto, associazione in partecipazione, ecc.). A tale riguardo recentemente un’Associazione Culturale che organizza corsi di scuola di musica primaria, rivolti principalmente a minorenni, ha chiesto se l’obbligo del certificato ricade anche sui professionisti che collaborano per l’associazione e che rilasciano regolare fattura. La risposta è stata affermativa, infatti l’obbligo, come sottolinea il Ministero, scatta ogni qualvolta l’attività svolta dal professionista sia oggetto di un contratto, comunque qualificato, che faccia sorgere un rapporto di lavoro con prestazioni corrispettive. Ne deriva che tutti i titolari di partita iva (inclusi l’artigiano, il professionista, il lavoratore autonomo, il commerciante…) debbano entrare in possesso del certificato. Nello specifico, per quanto riguarda le attività professionali l’adempimento deve essere circoscritto a quelle sole che abbiano come destinatari diretti i minori e cioè quelle che implichino un contatto necessario ed esclusivo con una platea di minori (quali ad esempio, insegnanti di scuole pubbliche e private, conducenti di scuolabus, animatori turistici per bambini/ragazzi, istruttori sportivi per bambini/ragazzi, ecc.).
Tra i rapporti di impiego, sono fuori dall’intervento normativo, quantomeno sotto il profilo sanzionatorio, quelli diversi da quelli di lavoro in senso stretto e cioè i rapporti di volontariato. Pertanto, per le organizzazioni di volontariato, l’obbligo di richiedere il certificato sussiste nei soli casi in cui le stesse, per lo svolgimento di attività volontarie organizzate, assumono la veste di datori di lavoro. Rimangono esclusi dal campo di applicazione della normativa in argomento, anche i datori di lavoro domestico nel caso di collaborazioni occasionali, assunzioni di baby sitter o comunque di persone impiegate in attività che non si strutturino all’interno di un definito rapporto di lavoro. Questo perché il Legislatore ha inteso tutelare i minori quando gli stessi sono al di fuori dell’ambito familiare, ambito nel quale il genitore ‘datore di lavoro’ può direttamente, con maggior efficacia, attuare tutte le cautele necessarie nei confronti del bambino/ragazzo.
Restano esclusi altresì i dirigenti, i responsabili, i preposti e comunque quelle figure che sovraintendono all’attività svolta dall’operatore diretto, che possono avere un contatto solo occasionale con i destinatari. In sostanza, rimangono fuori dalla previsione normativa quelle attività che non hanno una platea di destinatari preventivamente determinabile, in quanto rivolte ad una utenza indifferenziata, ma dove è comunque ‘possibile’ la presenza di minori.
Il certificato, pertanto deve essere richiesto dal datore di lavoro pubblico e privato; nel caso di privato questo è inteso anche come organizzazione/associazione. L’obbligo di richiedere il certificato sorge solo quando si intenda stipulare un contratto di lavoro e non quando ci si avvalga di semplici forme di collaborazione. La richiesta non va ripetuta ogni volta, allo scadere della durata del certificato (sei mesi) e non va presentata per le persone già impiegate alla data di entrata in vigore della normativa (6 aprile 2014); la richiesta deve essere presentata dal datore di lavoro, munito di documento di riconoscimento in corso di validità, o da persona da lui delegata, utilizzando l’apposito modello, previa acquisizione del consenso della persona interessata. La richiesta deve essere ripetuta quando, scaduto il termine di durata previsto con lo stesso lavoratore, il datore di lavoro ne voglia stipulare uno nuovo. Le pubbliche amministrazioni ed i gestori di pubblici servizi, che intendano instaurare con la persona un rapporto di lavoro di tipo contrattuale, si avvalgono del modulo già in uso per le pubbliche amministrazioni a norma dell’art 39 del T.U. In attesa dell’acquisizione del certificato, se il datore di lavoro è pubblico, questi può acquisire dal lavoratore una dichiarazione sostitutiva di certificazione; se il datore di lavoro è privato occorre la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.
L’obbligo del Pos
Le nuove norme che obbligano professionisti, imprese, lavoratori autonomi e commercianti ad accettare pagamenti con carte di credito e di debito¹ sono in vigore dallo scorso 30 giugno 2014. Risulta opportuno ricordare che il c.d. Decreto Crescita 2.0 (D.L. n. 179/2012) aveva stabilito che “A decorrere dal 1° gennaio 2014, i soggetti che effettuano l’attività di vendita di prodotti e di prestazione di servizi, anche professionali, sono tenuti ad accettare anche pagamenti effettuati attraverso carte di credito o debito”.
Inoltre, sempre il Decreto Crescita 2.0. (art. 15, co. 5 D.L. n. 179/2012) aveva previsto che “Con uno o più decreti del Ministro dello Sviluppo Economico, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentita la Banca d’Italia, sarebbero stati disciplinati gli eventuali importi minimi, le modalità e i termini, anche in relazione ai soggetti interessati, di attuazione della disposizione di cui al comma precedente. Con i medesimi decreti può essere disposta l’estensione degli obblighi a ulteriori strumenti di pagamento elettronici anche con tecnologie mobili”. A seguito di tale disposizione normativa il DM 24 gennaio 2014 (Definizioni e ambito di applicazione dei pagamenti mediante carte di debito) aveva stabilito che l’obbligo di utilizzo delle carte di credito o debito si applica a tutti i pagamenti di importo superiore a 30 euro:
– disposti a favore dei soggetti, rientranti nella definizione di ‘esercente’;
– per l’acquisto di prodotti o la prestazione di servizi.
Inoltre, sempre il DM citato aveva chiarito che in sede di prima applicazione (1° gennaio 2014) e fino al 30/06/2014 tale obbligo doveva riguardare unicamente le attività commerciali o professionali che abbiano un fatturato, nell’anno precedente a quello in corso del quale è effettuato il pagamento, superiore a 200.000 euro. In chiusura, sempre il DM in esame rimandava ad ulteriore specifico decreto (da emanare entro il 26/06/2014 – entro 90 giorni dall’entrata in vigore del citato DM):
– l’individuazione di nuove soglie e nuovi limiti di fatturato;
– l’estensione degli obblighi a ulteriori strumenti di pagamento elettronici “anche con tecnologie mobili”.
Tutto ciò considerato a seguito della conversione in Legge n. 15/2014 del c.d. Decreto Milleproroghe (D.L. n.150/2013) è stato stabilito il differimento dell’obbligo di utilizzo del Pos al 30 giugno 2014 e che pertanto lo slittamento dei termini ha fatto perdere efficacia anche alla normativa transitoria. Ovviamente tantissime le proteste, prima gli avvocati, i quali hanno subito chiarito che non si tratta di un vero e proprio obbligo, ma piuttosto di un onere, non ottemperando al quale potrebbe scattare la messa in mora del creditore, poiché il debitore non è stato messo nelle condizioni di poter pagare. A seguire gli architetti, che hanno presentato ricorso al Tar (purtroppo perso) e che ora si sono rivolti al Garante della concorrenza e sono in attesa di responso.
Al coro di voci si sono aggiunte quelle dei consulenti del lavoro che hanno chiarito che la mancata installazione del Pos non porta con sé alcuna sanzione né preclude la riscossione del credito. La circolare dei consulenti specifica, inoltre, che il consumatore che può optare per il pagamento con carta di credito o debito è la persona fisica che agisce e riceve servizi dal professionista per scopi estranei all’attività imprenditoriale e/o commerciale, quindi, non l’imprenditore, il quale infatti quando dà mandato al professionista firma un impegno a pagare la specifica prestazione professionale per bonifico o assegno bancario. La circolare, infine, punta tutto sui costi dell’operazione, dall’installazione alla transazione ed al costo delle spese telefoniche verso numeri automatici, e a tal fine, pertanto, i consulenti del lavoro chiedono che venga prevista per via normativa una sostanziale riduzione, se non l’annullamento dei costi di installazione e gestione degli apparecchi terminali, e osservano che, una mancata riforma, in tal senso, comporterebbe un aggravio di costi ad esclusivo beneficio degli istituti di credito. Tantissime le polemiche dal mondo politico, Confcommercio anche chiede un intervento normativo per la riduzione dei costi e per rivedere le soglie di fatturato che fanno scattare i nuovi obblighi. Risulta, pertanto, necessario, a tutt’oggi trovare una soluzione al problema, soprattutto anche in considerazione del fatto che, dall’altro lato, i consumatori, mostrano un ampio interesse alla corretta applicazione delle nuove disposizioni. Il Codacons ha invitato tutti iconsumatori a rifiutare il pagamento con denaro contante per spese superiori ai 30 euro ed a farsi mandare il conto a casa, da professionisti, imprenditori e commercianti che in barba alla legge non si sono muniti di appositi strumenti elettronici. Anche il nuovo direttore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, ha chiesto al Governo un intervento volto alla previsione di specifiche sanzioni per imprese e professionisti che non installano il Pos. Dunque, spero di essere stato esaustivo nel farvi comprendere che siamo nella più scura bufera!
Alternative possibili, ce ne sono: considerato che ormai l’obbligo – o onere – esiste e che la normativa dovrebbe solo puntare al miglioramento dell’applicazione per tutti, meglio adeguarsi al male minore. Esiste infatti in commercio uno strumento chiamato Pay Leven², che io conosca, ma ne potrebbero esistere altri, da collegare al telefono senza fili, bisogna solo essere degli ‘esperti’ manovratori di applicazioni per apple o android, si evita il canone, si pagherà una novantina di euro per l’acquisto dello strumento, per le relative transazioni ci si accorderà con il proprio istituto di credito e… potremo incassare le nostre parcelle anche in cima al Monte Bianco, a patto che ci sia ricezione!
Il ritorno dell’Iva
La segreteria riceve spesso richieste di chiarimenti circa l’applicabilità della esenzione Iva prevista dall’art. 10, numero 22 del Dpr 633/1972 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) alle prestazioni professionali rese dalle Gae. La predetta norma, nel testo vigente al giorno 8 marzo 2014, prevede che: “Sono esenti dall’imposta: (omissis) le prestazioni proprie delle biblioteche, discoteche e simili e quelle inerenti alla visita di musei, gallerie, pinacoteche, monumenti, ville, palazzi, parchi,
giardini botanici e zoologici e simili”.
Il quesito è dunque il seguente: “Le attività svolte da Guide Ambientali Escursionistiche in aree protette, parchi naturali, giardini botanici e simili sono esenti dall’applicazione dell’Iva?”.
In questo articolo faremo riferimento solo alle prestazioni rese da liberi professionisti (lavoro autonomo) ed in regime fiscale ordinario quindi con esclusione dei dipendenti e di coloro che, per altri motivi, possono vantare una esenzione dall’applicazione dell’Iva. La sentenza in esame afferma, al di là di ogni dubbio, che l’Iva si applica a tutte le prestazioni rese da professionisti, senza alcuna esenzione.
Secondo la Commissione Tributaria di Catania, infatti, l’esenzione Iva spetta solo all’ente che gestisce il parco oppure all’ente subalterno e/o all’organizzazione e/o cooperativa che ha la gestione per concessione della visita del parco ma non alle prestazioni di servizi del lavoratore autonomo come la Guida. Questo perché si tratta di una disposizione agevolata per le attività culturali degli enti che non hanno finalità di lucro e non di soggetti esplicanti attività a carattere professionale.
Dispone, testualmente, la Commissione Tributaria che “L’esenzione dall’imposta è soggettiva nei confronti dell’ente ed oggettiva per le sole prestazioni proprie dell’ente gestore il bene culturale o ambientale, con assoluta esclusione delle prestazioni di altri soggetti comprese quelle di Guide e/o accompagnatori turistici. In conclusione le disposizioni di cui all’art. 10, comma 1 punto 22 del Dpr 633/72 non sono applicabili ai lavoratori autonomi…”.
Viene fatta salva solo l’ipotesi in cui il servizio di Guida sia svolto da un ente subalterno od organizzazione o cooperativa a cui sia stata affidata la gestione delle visite da parte dell’ente pubblico. In questo caso le relative prestazioni svolte dietro corrispettivo possono essere esonerate da Iva.
Il tenore della pronuncia è estremamente chiaro e non lascia spazio a diverse interpretazioni. E’ pur vero però che si tratta di una pronuncia isolata e che tutte le organizzazioni delle Guide turistiche (assoggettate al medesimo regime ed alla stessa interpretazione giurisprudenziale) continuano a divulgare ed applicare l’esenzione delle loro prestazioni professionali dall’applicazione dell’Iva. Esiste anche documentazione ufficiale delle Province, attinente alle tariffe per i servizi di guida turistica, in cui egualmente si sostiene l’applicabilità dell’esenzione Iva. Stando così le cose ed in assenza di segnalazioni di eventuali contestazioni dobbiamo ritenere che le Agenzie delle entrate, ad eccezione di quella siciliana, abbiano sino ad ora ritenuta applicabile l’esenzione Iva alle attività delle guide.
Esistono poi in materia la Risoluzioni Ministeriali 5 aprile 1973, n. 528068, 2 maggio 1985 n. 395008. In particolare la prima afferma che “l’esenzione si applica non solo ai rapporti direttamente interconnessi tra i visitatori ed i musei… parchi, giardini zoologici e simili ma ad ogni prestazione inerente alla visita di tali luoghi. Pertanto i servizi resi dalle Guide turistiche che si estrinsecano nell’accompagnare i turisti nelle visite ai predetti luoghi devono considerarsi esenti da Iva ai sensi del citato art. 10 del Dpr n. 633”.
La seconda afferma l’esenzione per le sole attività che non abbiano fini commerciali quindi sembra essere in linea con il dettato della sentenza catanese che proprio sulla natura commerciale delle prestazioni rese in regime libero professionale ha fondato la sua pronuncia di assoggettabilità ai fini Iva. In effetti quello che manca nella sentenza di Catania in commento è proprio l’esame della Risoluzione Ministeriale 5 aprile 1973, n. 528068.
In conclusione, pur sussistendo un certo margine interpretativo, il precedente più recente, cioè la sentenza catanese, non lascia scampo: l’Iva va applicata anche alle prestazioni rese nei parchi naturali. Permane, tuttavia, un’ampia prassi di segno contrario. Identiche conclusioni valgono per le guide turistiche.
Ognuno, dunque, applicando in fattura l’esenzione Iva assumerà il rischio di un possibile accertamento fiscale.
Rag. Marco Menichetti
m.bufera21@gmail.com
e Avv. Luca Berchicci
avvluca@studioberchicci.191.it
Note
¹ ‘Carte di debito’ è il modo più corretto per chiamare i cosiddetti ‘bancomat’; si tratta di strumenti di pagamento elettronico che, a differenza delle carte di credito, sono collegati in modo diretto a un conto bancario, da cui prelevano (N.d.R.).
²A questa, leader di mercato, distribuita da Poste Italiane a soli 39,00 euro agli utenti Business di Conto Banco Posta si affiancano Move and Pay, Jusp, Wallet-Abile e l’economicissimo. Attenzione, se si pensa di farne un uso costante, a canoni e percentuali: al momento, tra l’1 e il 2,75% della transazione va al sistema creditizio come costo di operazione inoltre alcuni operatori ed istituti impongono, per l’utilizzo, canoni mensili non proprio ‘francescani’. N.d.R.