Ciarauli, guaritori, aromatieri e majare – La medicina popolare siciliana come strumento di lavoro
- 10 novembre 2014
- Comunicazione
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Gli antichi rimedi che, sin dalle prime civiltà della storia, erano utilizzati per la cura di ogni tipo di malattia, hanno affascinato generazioni di uomini… tra tutti questi, Paolino Uccello, socio Aigae, che con ricerche empiriche e meticolose è venuto alla scoperta di erbe, radici, bacche e quant’altro offre il Creato per sanare dai mali che man mano gli si presentavano sempre in forme nuove.
Nel suo intervento Paolino Uccello ha ricostruito la storia e la memoria del mondo contadino ibleo, in particolare delle botteghe dei ciarauli, dei guaritori e degli aromatieri, che per secoli, unitamente alla “majara”, hanno costituito l’unico intervento terapeutico accessibile alla quasi totalità delle genti iblee. Ma è al passato che dobbiamo guardare per comprendere gli usi delle piante officinali nella cultura popolare iblea, perché i primi erbari documentati in Sicilia, che favorirono una più esatta identificazione delle piante, risalgono al ‘500. I ricettari risalgono invece al pieno medioevo e una medicina tipica di quel periodo è la “Teriaca o Triaca” che comprendeva nella sua formulazione la “carne di vipera”. Infatti secondo le credenze di allora, un animale velenoso possiede nel suo corpo l’antidoto contro tale veleno. Le teriache si ripresentano nella cultura contadina siciliana dei secoli XVIII-XIX, esse erano fondamentalmente composte da: carne di vipera (elemento primario), incenso, timo, tarassaco, potentilla, miele, liquirizia, finocchio, radice di valeriana e aristolochia.
In effetti definire il ruolo del serpente nella nostra cultura è compito arduo, in quanto ci troviamo davanti ad un complesso fenomeno di tradizioni nate nei vari nuclei locali, condizionati da realtà di matrice diversissima. Per la muta periodica che lo contraddistingue, in passato il serpente simboleggiava il rinnovamento della natura ed era associato al culto delle acque e della fertilità. E’ forse questo il motivo per cui spesso questo rettile era anche abbinato ad alcune divinità femminili, come Artemide ed Ecate. Ritornando alla storia delle botteghe dei ciarauli, Uccello sottolinea la loro importanza nel sistema sociale ibleo, in quanto quella dei ciarauli era un’arte trasmessa da generazione in generazione ed i loro intrugli, di cui non sappiamo abbastanza erano spesso imitati dai contadini che utilizzavano l’unguento miracoloso realizzato immergendo scorpioni o teste di vipere nell’olio. I Ciarauli sono legati al culto di San Paolo e, per la mitologia di San Paolo Apostolo, anche per i ciarauli trova larga parte il riconoscimento del loro potere taumaturgico di guarire dai morsi dei serpenti, delle vipere, delle tarantole e degli insetti velenosi. I ciarauli usavano anche l’erivi i San Paulu: la lavanda e l’alloro. Infatti, nel giorno di San Paolo, mazzetti di lavanda vengono, a tutt’oggi, benedetti e portati nelle case dei fedeli con funzione apotropaica; nelle nostre campagne, l’uso di bruciare l’alloro era legato alla credenza che questi fuochi potessero allontanare i serpenti. La pianta infatti era sacra a San Paolo e per allontanare le vipere dalle case si recitava questo ciarmu: “San Paulu maccia ri addauru, spina pungenti, nun muzzicari a mia ne autri genti”.
L’intervento della majara si richiedeva invece per ottenere la guarigione o per allontanare la presenza di una forza avversa, ma anche per invocare malefici nei confronti dei rivali. La majara è legata all’affatturamento, pensiamo all’uovo di gallina, la majara infilava da trenta a sessanta spilli per provocare fitte dolorose alla persona che si voleva affatturare, però nella parte superiore dell’uovo si infilava un chiodo, attorno al quale si legava un nastro rosso, affinché la majara non subisse gli effetti del proprio maleficio. Questi personaggi della storia popolare, ricorrevano all’uso “ro ciarmu”, cioè alla parola che guarisce ma soprattutto all’uso delle piante.
Usavano, infatti, gli oleoliti, per esempio l’olio di iperico, gli acetoliti, quello più importante era l’acetolito con il fiore di sambuco contro il mal di denti, infine, gli enoliti, con il vino, il più famoso curava “i vertigini i morriri”, poi si usava la picata, cioè la pomata con grasso di maiale e piante officinali: il termine picata, è una resistenza culturale, nella parlata dialettale iblea, si dice “si na picata” ad una persona alla quale cadono gli oggetti dalle mani. La pomata più famosa era fatta con l’elicriso, per le dermatiti. I ciarauli, gli aromatieri e le majare si occupavano anche dei filtri d’amore, ma per i filtri d’amore occorrevano molti ingredienti: un pelo di barba di monaco, un pizzico di ossa di morto, la viola e la verbena, infine si ripeteva l’orazione: “ti rugnu u sancu rili me vini tu ma amari finu alla fini, ti rugnu u sancu ri li mi ossa tu ma amari fino alla fossa, ti rugnu u sancu ro ma ciunnu tu m’amari finu alla fini ro munnu”. Nei loro intrugli usavano perfino la mandragora; fin dall’antichità la mandragora ha evocato qualità magiche ed afrodisiache, tuttavia non era semplice estrarre la radice, perché se non si adottavano certe precauzioni si rischiava addirittura di morire. In primo luogo, la pianta va spiantata di notte, in sintonia del legame della Mandragora con la dea Ecate. Quanto al rito, chi la coglieva doveva evitare di avere il vento contrario, poi tracciava intorno alla pianta tre cerchi con una spada benedetta e, infine, la dissotterrava guardando ad occidente, di facili costumi intonava canzoni erotiche per distrarre l’anima del defunto contenuta nella radice della pianta. La majara la consigliava a chi nel sonno voleva incontrare l’amato o l’amata, bastava ingerire del vino rosso prima di addormentarsi dove erano stati grattugiati frammenti di “Mandraula”.
Violetta Francese
Coordinatrice Aigae Sicilia